Rosmarino: Rosmarinus officinalis, l’erba della memoria

“c’è il rosmarino, questo è per la memoria” per dirla come l’Ofelia di Shakespeare nel quarto atto dell’Otello.

Panacea per tutti i mali, il comunissimo rosmarino non può mancare nel  cortile o sul nostro balcone.
Visto che già greci e romani lo consideravano portafortuna, arma contro gli spiriti maligni e pianta gradita agli Dei, ne converrete che dobbiamo averne almeno un cespuglio, una rametto, un sacchettino di foglie e fiori secchi.
Non basta? Nel Medioevo simboleggiava pure l’amore eterno e pare  che l’infuso oltre ad aiutare la memoria combatta la depressione.
Possiamo coltivarlo in vaso oppure in piena terra, non ha esigenze particolari se non il clima mediterraneo. Noi emiliani lo piantiamo riparato dalle correnti fredde appoggiato ai muri rivolti a sud.
Che ci si intenda di erboristeria, che ci si destreggi con tisane, decotti e unguenti oppure no, una pianta di rosmarino non può mancare nel nostro bouquet olfattivo e alimentare. Fa primavera la fioritura e anche il brusio delle api che vengono a visitarlo. Il profumo da solo ci ripaga della cura ma non limitiamoci a quello. Profuma le pietanze e le rende digeribili, se ne fa un buon vino e un miele eccezionale.

La regina Isabella d’Ungheria ebbe in sogno da un angelo la ricetta per la panacea di tutti i mali, chiamata appunto “l’acqua della regina d’Ungheria” che conteneva poca acqua e parecchio alcool. Pare che la vecchia regina risolvesse problemi di gotta e di artriti bevendone… qb.

Rosmarinus officinalis
Rosmarinus officinalis

Rosmarino officinale

Ne esistono molte varietà, quelle che noi riteniamo di più semplice coltivazione (per il nostro clima collinare con puntate anche a -16°) sono il classico Rosmarino officinalis, il Rosmarino officinalis “White” a fiore bianco e quello Prostratus a portamento strisciante, splendido da inserire negli anfratti del giardino roccioso o sui balconi con il suo effetto “a cascata”.
La moltiplicazione si fa per seme o per talea di rametto.
In primavera tagliate il ramo a circa 20 cm dalla sommità, nella parte semi legnosa, piantatelo in terra sabbiosa e bagnate spesso. Se avete l’abitudine di conservalo in vasi d’acqua per utilizzarlo fresco in cucina può capitare che metta radici anche lì, in questo caso mi sembra bellissimo dargli la possibilità di diventare una nuova pianta. Basta un vaso sul davanzale e vi ripagherà delle vostre cure.
Ricordate di utilizzare concime per biologico per poter mangiare SANO quello che coltivate. Per il rosmarino vanno benissimo i lupini macinati mescolati al terriccio. Sono naturali e a “lenta cessione”. Significa che non sarete legati a concimazioni quindicinali ma sarà sufficiente una manciatina di lupini ogni sei mesi.

Fra le tante ricette antiche quella della marmellata di fiori è la mia preferita.
100 gr di fiori di rosmarino da pestare nel mortaio
200 gr di acqua da bollire con 30 gr di foglie
colare l’infuso, aggiungere 300 gr. di zucchero e preparare lo sciroppo
lasciare intiepidire e aggiungere la pasta ottenuta coi fiori pestati
invasare e sterilizzare.
Questa marmellata era la preferita di Galileo Galilei, gliela preparava la figlia in convento.

Spalmata su una fettina di pane casereccio, profumerà le giornate di nebbia come se fosse primavera.

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Hoodia gordonii: pianta dimagrante se sei un Boscimano

Mangiando solo Hoodia intanto che si rincorre selvaggina il dimagrimento è assicurato!

Navigando in internet ho scoperto che questa deliziosa pianta non è più conosciuta solo dai collezionisti, i suoi derivati sono in commercio carichi di promesse. “inibitore della fame”,”dimagrante”, “miracolosa”…
Ma abbiamo davvero bisogno di una pianta dimagrante? ci serve? siamo ancora convinti che un succo magico ci permetterà di raggiungere il peso che riteniamo giusto per noi?
Io coltivo piante per cui non sono assolutamente in grado di sapere se è vero o no che la pianta da senso di sazietà o se fa addirittura dimagrire, quello che posso valutare è la conoscenza della pianta che hanno i venditori di questo succo magico.
Una passeggiata nei siti di vendita “sbobbe varie” mi ha dimostrato che raccontano quel che non sanno:
“Hoodia cactus”
“hoodia famiglia hoodia”
“pianta cactus-simile”
se non conoscono la pianta che vendono perché dovrei credere a tutto il resto? Ma soprattutto perché dovrei affidare al potere taumaturgico di una pianta lo squilibrio di calorie della mia alimentazione?
Parlo di GUARIGIONE non per confusione linguistica ma perché conosco i disturbi alimentari molto bene.
Sono certa che i Boscimani dimagriscono mangiandola. La letteratura dice che si nutrono solo di questa pianta per vari giorni, quanto dura la caccia. Ora mi viene da pensare che se io, nativa della pianura padana, in assenza di hoodia, mangiassi solo tarassaco rincorrendo una lepre, il tarassaco sarebbe pianta dimagrante!
Il discorso DISTURBI ALIMENTARI è molto ampio, si sviluppa a livello fisico, spirituale ed emotivo.
Forse proprio perché così complesso e articolato muove un giro di affari impressionante.
Proviamo ad analizzare con occhio critico quanto stia a cuore a molti. Sforziamoci di guardare un attimo la tv con gli occhi aperti. Metà della pubblicità ci farà vedere cose da mangiare super raffinate (quindi “affamanti”) masticate da famiglie magre e felici, l’altra metà cose che sgonfieranno, rassoderanno e faranno dimagrire persone con espressioni tese e scontente. Nei programmi invece vedremo persone magre che “valgono” e persone grasse messe in ridicolo.
Nessuno metterebbe in ridicolo un diabetico, perché  uno grasso è buffo?
Non c’è niente di buffo nel sovrappeso, non c’è niente da ridere nelle abbuffate e niente nelle tecniche messe in atto per  mantenere il peso forma.
Ho dato per scontato che chiunque cerchi “pianta dimagrante” online abbia disturbi alimentari, forse non è così. Ci sono vari modi per capirlo. Il più immediato è rivolgersi alla propria asl e attivarsi come si farebbe per qualsiasi altra MALATTIA.
questa è la pagina della mia città

http://www.ausl.pr.it/azienda/programmi/disturbi-comportamento-alimentare.aspx

Quando mi sono riconosciuta come malata mi è servito ricordare che le ferite dei bambini guariscono con disinfettante e cerotto, ma il processo di cicatrizzazione si innesca prima di tutto con un bacio e un abbraccio.
Noi possiamo cominciare a “disinfettare” la nostra malattia riconoscendola come tale.
Quando siamo ossessionati dal cibo siamo malati, non golosoni privi di volontà.
Mettiamo poi un cerotto alla nostra ferita evitando cibi spazzatura (che innescano fame perpetua) ma, prima di tutto e continuamente, prendiamoci cura di noi in toto, non ingoiando intrugli miracolosi ma costruendo il nostro miracolo.

Hoodia gordonii
Hoodia gordonii

Hoodia gordonii è una splendida Asclepiadacea, non è un cactus, è originaria dell’Africa del sud, il fiore a forma di parabolica ha cinque punte e puzza di carne marcia come tutti quelli della specie. Attira i mosconi da carne come impollinatori. Noi la coltiviamo in serra con minima invernale di + 6° nonostante molti testi raccomandino temperature maggiori. Credo sia importante l’assenza di umidità. E’ molto sensibile alla botrite per cui ha bisogno di terriccio ben drenante.
https://it.wikipedia.org/wiki/Botrytis_cinerea
L’ho vista spesso coltivata in substrati composti al 90° di materiale inerte proprio per evitare marciumi.
Si riproduce da seme o per talea. I semi sono contenuti in un baccello che si apre a maturazione. Sono leggerissimi, in natura vengono dispersi dal vento per cui se desiderate raccoglierli, dovrete essere attentissimi nel seguire la maturazione, oppure occorrerà mettere una “cuffietta” di tulle sul baccello.

per  approfondire il tema disturbi alimentari mi è servito questo splendido libro:
FAME  di Allen Zadoff Corbaccio ed.

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Uova: dozzine di motivi per non mangiarle

Uova di galline felici, ottima pubblicità che mi farebbe riempire il sacchetto di uova, giusto per l’immagine evocativa che mi procura. Prati verdi in cui razzolano libere, pulcini che si scaldano sotto le piume della mamma o si fanno trasportare in groppa dormendo.
Ora vorrei analizzare bene il contenuto reale di questa frase, tralasciando per un attimo il tipo di allevamento delle galline.
Vorrei approfondire il concetto di felicità evocato nella presentazione.
Ad oggi non è ancora possibile stabilire il sesso dei nascituri al momento della fecondazione dell’uovo. Presumibilmente nasceranno nell’incubatrice quantità simili di maschi e femmine. Per la produzione di uova i maschi sono “scarti di produzione” dell’incubatoio.

pulcino nei cambi verdi

gli schiacceresti la testa col pollice?

quando compriamo un uovo lo stiamo facendo!

Come in ogni altra attività industriale gli scarti di produzione vengono eliminati. I pulcini maschi si riconosco dalle femmine perché hanno, già al momento della nascita, un accenno di cresta. Quel millimetro di crestina li fa finire, vivi, direttamente in un tritacarne oppure in grandi sacchi di plastica dove muoiono schiacciati o per soffocamento. Eticamente possiamo considerare “attività industriale”  l’accudimento di esseri viventi?
Torniamo alle galline felici. Queste sono le sorelle dei poveri scarti di incubatoio. Ci sono leggi che indicano quante galline possono vivere in un metro di gabbia o di pavimento, in Italia hanno meno centimetri di spazio rispetto ad altri paesi (forse perché la nostra è una nazione piccola). Sapete cosa mangiano? Mangimi che contengono anche i loro fratelli, ridotti a sfarinati nel tritacarne, non si butta via niente. Sapete quante uova producono ogni anno? Più di uno al giorno perché i loro ritmi vitali vengono “truccati” grazie alle lampade che simulano il ritmo notte giorno. Queste creature sono così stressate che diventano cannibali, gli allevatori devono “spuntare” loro il becco o munirle di occhiali ciechi che le proteggano l’una dall’altra.  Riusciamo a immaginare di quanti antibiotici abbiano bisogno le galline per sopravvivere a questi trattamenti abbastanza a lungo da produrre reddito?
Anche non volendo parlare di etica, dobbiamo essere consapevoli che quegli antibiotici li troveremo nelle uova, e questo è solo uno delle dozzine di motivi per non mangiarle.

Il dizionario Treccani così definisce la parola felice:
felice agg. [lat. felix -īcis, dalla stessa radice di fecundus, quindi propr. «fertile»]. –
Che si sente pienamente soddisfatto nei proprî desiderî, che ha lo spirito sereno, non turbato da dolori o preoccupazioni e gode di questo suo stato.

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Le asprelle NON SONO il tarassaco

Le asprelle per noi parmigiani sono un rito di febbraio, o almeno di quando si scioglie la neve. Un cibo povero per definizione ma ricchissimo di proprietà. Una passeggiata in un prato vecchio o in un incolto, è sufficiente per un ricco bottino di Cichorium intybus, cioè asprelle. “Aspre”, sapore inconfondibile, molto diverso da quello del tarassaco, Taraxacum officinale, col quale vengono spesso confuse.
La confusione alla raccolta viene dal fatto che le foglie primaverili sono simili perché entrambe roncinate pennate. Appartengono alla stessa famiglia, sono Asteracee, ma mentre le foglie invernali delle asprelle  hanno portamento prostrato il tarassaco è eretto.
Impossibile confonderle durante la fioritura. Fiore azzurro per le prime, fiore giallo per il soffione.

Cichorium intybus, asprelle, grugn

images.cicoria

il_tarassaco  Taraxacum officinale, dent ad leòn, pitaciò

Tradizionalmente la cicoria si condisce con pancetta di maiale soffritta e aceto. Noi sostituiamo al povero maiale un ragù di seitan e non ci facciamo mancare l’aceto che ne esalta l’amaro.
In tempi di povertà la radice della cicoria veniva utilizzata per fare una bevanda molto simile al caffè.
Queste deliziose erbe buone si possono coltivare anche in vaso, cosa abbastanza rara vista l’abbondanza nelle nostre campagne.
I semi sono reperibili nei cataloghi più prestigiosi oppure direttamente nei campi.

Vi consiglio caldamente di non usare l’imperativo “va par spréli” per invitare qualcuno ad andarvi a raccoglierle la cicoria perché la frase contiene un significato popolare poco gradevole 🙂 🙂

Opuntia Ficus indica: tutta commestibile

Opuntia ficus indica, il nome nasce da un malinteso, dalla convinzione di Colombo di trovarsi nelle indie quando approdò alle Antille.

Da allora ha viaggiato molto, è arrivata praticamente ovunque grazie ai marinai che ne riempivano le stive per combattere lo scorbuto. Le foglie recise si conservano vive per mesi, buttano radici fioriscono e fruttificano anche fuori terra. Una vitale riserva di verdura fresca per chi andava per mare molto a lungo. Probabilmente ha colonizzato il mondo grazie alle pale avanzate “buttate” sulla riva alla fine della navigazione. Pianta generosa quanto ostile. Ci sono varietà con spinature veramente inavvicinabili e quelle con spinette che possono sembrare innocue hanno in realtà glochidi dolorosissimi. I glochidi sono spine sottili che finiscono come un amo da pesca, si infilano nella carne e la lacerano prima di uscirne.
Da noi si mangia soltanto il frutto, in Mexico si cucinano anche i nopales ossia le pale (foglie) giovani dell’annata.

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Le possiamo gustare al ristorante messicano in salamoia o in umido.

Oppure prepariamole a casa con questa ricetta semplice:

In Emilia Romagna la maggior parte delle Opuntie soccombe al gelo, ne abbiamo avute alcune che sono vissute all’aperto per qualche anno diventando esemplari imponenti ma poi, nelle annate che chiamiamo eccezionali, sono gelate. Non credo che sia corretto definire “eccezionali” eventi che si ripetono con cadenza al massimo decennale ma, negli otto o nove anni tra un freddo e l’altro, ci sentiamo mediterranei e piantiamo in pieno campo opuntia olivi e oleandri dimenticando i danni che fa la nebbia sommata al freddo.
Coltiviamo all’aperto Opuntia scheeri, Opuntia compressa, Opuntia aciculata.
Siamo certi che resistono fino a -16° anche bagnatissime e coperte di neve perché le abbiamo sperimentate sul posto per più di 20 anni con minime da record.
Le Opuntie contano più di 300 specie, hanno le forme più svariate nelle sottospecie Cylindropuntia, Austrocylindropuntia e Corinopuntia. Le sottospecie hanno corpi diversissimi, da piatti a cilindrici, da minuscoli a quasi alberi ma hanno fiori identici.

Si possono moltiplicare per seme e per talea di foglia o articolo. Noi moltiplichiamo per talea perché è un metodo rapidissimo, conveniente quando si ha poco spazio. Peccato dover rinunciare al piacere del semenzaio che così tanto appaga l’istinto materno.
Importante per la buona riuscita delle talee è lasciarle asciugare benissimo prima di interrarle. Si tagliano dalla pianta madre nel nodo di congiunzione, si appoggiano in piedi per il verso in cui saranno piantate e si lasciano asciugare anche per settimane, il tempo d’attesa varia a seconda del grado di succulenza della pianta e dalla stagione, indicativamente si aspetta fino a quando il taglio sarà diventato un callo asciutto.
E’ necessario metterle in piedi perché gli ormoni radicanti, naturalmente presenti nella pianta, si concentrano dove sentono l’appoggio e potreste trovarvi con le radici sbucate in testa o di lato alla foglia. Preferibilmente si riproducono durante la bella stagione, dalla primavera fino a settembre, ma sono robustissime per cui, nel caso di articoli rotti in inverno, teneteli all’asciutto fuori terra, e in primavera saranno pronti a radicare.

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Vegano: non mangio nulla che abbia avuto una madre

Ho capito che dichiararsi vegano è esporsi, nostro malgrado, a critiche, giudizi e consigli. Se lo si dici al ristorante, il viso del cameriere cambia espressione, volgendo al “è arrivato il rompipalle, ti pareva che anche oggi non ce ne fosse uno?”se lo si confida a un’amica l’espressione vira al preoccupato e saremo sottoposti alla tiritera del rischio anemia, del “siamo animali onnivori e non possiamo vivere senza quel minimo di grammi di carne, meglio rossa, almeno bianca, almeno, per favore, in nome della nostra amicizia, una volta al mese”. Io l’ho dichiarato alla caposala prima del ricovero ospedaliero. Mi ha fruttato fagioli e ceci alternati mezzogiorno e cena ma anche un brodo di pollo, pennette al tonno e scorfano al forno. Non ho nemmeno protestato, mi sono chiesta se la dietista chiamata in causa per il mio menù, conoscesse soia, tofu, seitan ma in fondo mi sento irritante se non mi adeguo. In aereo un menù vegano non esiste,anche quello vegetariano è impegnativo perché il pezzo di pollo viene nascosto sotto la pasta, secondo loro “se non è in superfice non se ne accorge”.  Se poi ci azzardiamo, noi diversi, a dichiarare che se avessimo figli piccoli non li nutriremmo di animali e derivati animali come abbiamo fatto anni fa, davvero veniamo giudicati di brutto. Il veganismo dei bambini viene chiamato  imposizione, l’essere carnivori no. Il bimbo che non può, per scelta dei genitori, mangiare dolci fatti di panna, zucchero, farine raffinate e uova è “poverino”, alla faccia degli studi che riconoscono questi ingredienti nocivi alla salute.  Fino a prova contraria qualsiasi decisione riguardi un bimbo è un’imposizione dei genitori, dei maestri, della società. Un’imposizione che chiamiamo educazione, che facciamo a fin di bene, con amore, pensando sia la cosa giusta, ma a volte il tempo ha clamorosamente smentito o almeno cambiato il concetto di “cosa giusta”.

Da  emiliana non posso nemmeno pensare che la mia famiglia possa sopravvivere alle feste natalizie e pasquali senza anolini, per cui, ecco la mia versione vegan che vi consiglio di provare 🙂 🙂

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Anolini vegan, non nuocere

Preparate un ragù con cipolla carota e sedano tritati fini e soffritti per qualche minuto  in olio extravergine di oliva,
aggiungete doppio concentrato di pomodoro, seitan macinato, acqua. Io adotto la cottura lunga del ragù classico, almeno un paio d’ore. A fine cottura deve rimanere abbastanza liquido per “scottare” il pane.
Grattugiate pane casereccio (è importante perché col pane bianco si ha l’effetto vinavil) miscelatelo a spezie per ragù, pepe, sale, noce moscata e scottate il tutto con il liquido del ragù di seitan (solo il liquido senza pezzettini). Con la forchetta girate bene in modo da insaporire tutto il pane.
Aggiungete il ragù e mescolate il tutto. Una volta freddo deve avere la consistenza giusta per essere “pizzicato” con le dita e modellato a palline per essere appoggiato sulla pasta.
Preparare la sfoglia con acqua e farina, stendetela sottile, appoggiateci le palline alla giusta distanza per poterle poi tagliare col vostro stampo. Coprite con un altro foglio di pasta e tagliate gli anolini. La dimensione degli anolini la deciderà lo stampo che avete scelto. Il classico di Parma è 2,5 cm.
Non usando uova per la sfoglia si presenta il problema dell’apertura in pentola degli anolini. Per evitare questa brutta figura con gli ospiti, conviene spennellare la sfoglia intorno al ripieno con acqua prima di appoggiare la sfoglia superiore.
Sono ottimi cotti in brodo di verdura oppure in acqua e poi conditi con panna di soia e zafferano, oppure con panna di soia e noci macinate fini, con un ragù rosso di funghi oppure semplicemente con un filo di olio.

IMG-20151221-WA0000 BUON APPETITO!

se avete amici che mangiano solo carne non svelate nulla della ricetta, aggiungete  un cucchiaio di parmigiano grattugiato al condimento del loro piatto e…non si accorgeranno di nulla.

 

 

 

 

 

Le gazze decidono: ristrutturare ex-novo o trasferirsi?

A gennaio, quando fa così freddo che la primavera non si riesce ancora ad immaginarla, le gazze ladre scelgono dove far nascere i piccoli. I platani davanti casa sono altissimi per cui, da anni, sono i prescelti.  Cominciano controllando i danni del nido vecchio, quando le giornate sono ancora corte e buie. “Provano” il vecchio nido che sembra una fascina impigliata tra i rami più alti. Ci si accoccolano dentro, aggiustano intrecciando il bordo e il fondo, poi volano sull’albero di fianco, sembrano pensarci, valutare, parlarne. Per me che faccio birdwatching a chilometro zero osservandole dalla finestra, sembrano consultarsi sul fatto che possa reggere ancora al vento, se debba essere costruito ex-novo o se sia meglio trasferirsi sull’altro albero che ha l’ultima impalcatura di rami qualche centimetro più in quota.  Quest’anno hanno scelto di trasferirsi,  una ha portato i legni, l’altra li ha intrecciati. Hanno utilizzato anche  i rami del vecchio nido, dista pochi metri ma far passare tralci così lunghi in mezzo ai ramoscelli fitti delle chioma  sembra un impresa faticosissima. Sono certa che mi hanno vista col naso appoggiato al vetro, ma hanno visto anche che non ho ali e non si sono curate di me. Hanno spezzato col becco rametti sottili direttamente dagli alberi e portato pezzi ben più lunghi della loro apertura alare dai campi. Qualche volta far passare le “travi” di casa ha significato saltare di ramo in ramo cercando un varco e qualche volta la trave è caduta e si è dovuta recuperare ai piedi dell’albero, ricominciando da capo, con infinita pazienza. Per un paio di settimane hanno lavorato dalle prime  alle ultime luci del giorno.

La gazza non si interessa agli oggetti luccicanti

Poi…non s’è visto più nulla. Posso immaginare le uova dentro il nido e la mamma che le tiene al caldo e al riparo dalla pioggia. Durante la deposizione e la cova l’albero farà la sua parte mettendo le foglie. Quando i piccoli nasceranno il nido deve essere nascosto completamente. Se non fosse così sarebbero esposti ai predatori, corvi, falchetti, poiane. Le gazze ladre (Pica pica), predatrici di uova e pulcini sono esse stesse prede, in un circolo che ha ben poca dolcezza.

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