Anolini in brodo di cappone è una ricetta-racconto che mi ha permesso di rivivere momenti lontani. Scrivere è anche viaggiare nel tempo, in questo caso sentivo l’odore di farina, budella e stracotto.
Ci sono anche dei silenzi dentro questo racconto. Sono quelli di mia madre che mi confessò la sua sofferenza nel “fare i capponi” solo quando fu certa che non sarebbe toccato anche a me farli. Perchè sommare tristezze?
Abbiate pazienza con questa sognatrice incallita, l’articolo di oggi esula dall’argomento piante. Con “Anolini in brodo di cappone” ho ricevuto una menzione al premio Crovi, ne sono molto fiera ovviamente, se mi sentirete raccontare che scrivo “solo per me” sappiate che sto mentendo. Scrivo per condividere, quindi vi allego il mio racconto.
NON è IMPAGINATO COME VORREI MA NON SONO RIUSCITA A FARE DI MEGLIO CON LE IMPOSTAZIONI DI WORDPRESS.
ANOLINI IN BRODO DI CAPPONE
Gli anolini sono l’anima del Natale e della Pasqua. La Natività e la Resurrezione sarebbero sospese senza di loro? A Parma e Reggio sicuramente sì.
Chiunque potrebbe cucinare anolini, in ogni parte del mondo e per qualsiasi festa, ma se quel qualcuno non fosse reggiano o parmigiano, non saprebbe riprodurne la consistenza.
Non esiste ricetta senza almeno un ingrediente segreto, un tocco del territorio, un sapore o a volte semplicemente un profumo, che non può essere in nessun altro luogo.
Quello degli anolini è… anzi, i segreti sono due ora che ci penso…ci starebbe bene un rullo di tamburi, uno squillo di tromba, magari una pausa ad effetto, di quelle teatrali che durano interminabili secondi…non fosse che io, questi segreti, non ho nessuna intenzione di portarli con me dove andrò senza mattarello né grembiule, là troverò la tèvla parcèda, spero.
Il primo segreto è un sentimento, o meglio, un’arietta. Ma di questo parleremo dopo, quando tutto sarà impastato, modellato e cotto, cioè quando il mestolo, sfiorando leggermente la fondina senza toccarla, verserà cibo e vapore davanti a noi.Il segreto numero due, ma non in ordine d’importanza, sono i magoni. Sì, i magoni. Quella gommosità che respinge per un attimo i molari opponendo una graziosa resistenza, non risoluta no, graziosa soltanto, è data dai magoni di gallina o altro volatile da cortile. I magoni, di chiunque siano, sono un ingrediente insostituibile, forse pensato a tavolino dall’inventore di questa fantastica ricetta (ammesso che esista), o forse aggiunti da qualche rezdora illuminata dalla malinconia della festa.
Noi rezdore, per tradizione, prepariamo pasta e ripieno e li assembliamo, mentre gli altri pensano, in ordine di età: cosa porterà babbo natale? Cosa metterò il giorno di Pasqua? Riuscirò a fare una bella mangiata sensa scioppèr anche quest’anno? Noi mamme-mogli-nonne, silenziose in mezzo a questo vortice di pensieri altrui, pizzicheremo palline di ripieno, le metteremo sulla sfoglia e le sigilleremo una a una, pensando a quando guardavamo le mani della mamma fare la stessa cosa, a quell’anno in cui avevamo una pancia così a cocomero che arrivavamo appena al tavolotto, a quando i figli erano piccoli e ci aiutavano con la faccia infarinata.
Dopo la quinta decina di anolini, staremo già pensando a come ci sentimmo orfane il primo Natale senza la nostra mamma, anche se eravamo adulte e facevamo finta di niente. Penseremo ai figli che forse torneranno o forse no, viaggiatori di rotte molto lontane. Le nostre mani si muoveranno senza bisogno di attenzioni e daranno forma al cibo per la nostra famiglia, almeno per un giorno, consapevoli che di più non possiamo più fare.
Quindi: gli anolini si cominciano a cucinare macellando galline perché i magoni sono un ingrediente insostituibile. I magoni nostri, le malinconie delle feste, che non si raccontano e non permettiamo traspaiano nemmeno dallo sguardo, ci raccontano quanto sia organo dell’emozione, oltre che sacca in cui finiscono i cereali che le galline mangiano. Forse proprio per questo gli anolini “sono” le feste comandate.
Gli animali da cortile della mia vita sono stati tanti: anatre mute, galline, galline francesine, tacchini, germani, oche. La fame lega tutta questa masnada mista di volatili alla persona che porta loro granaglie, avanzi, erba e quant’altro la reclusione impedisca loro di procurarsi autonomamente. La gallina riconosce la nostra voce, ci corre incontro quando abbiamo la paletta del grano fra le mani, ci segue nelle nostre passeggiate e difende i suoi figli, come noi. I pulcini giocano in mezzo alle piume della mamma, si nascondono sotto l’ala, salgono sulla schiena, rimangono coperti, scoperti, mezzi sotto e mezzi fuori dalle piume. Giorno per giorno imparano ad allontanarsi dalla chioccia, ogni giorno qualche centimetro in più, come i nostri figli. Capiscono il significato dei richiami già appena nati. Se in cielo appare la poiana, il gallo lancia l’allarme, la chioccia allarga le ali e a sua volta grida. Si capisce senza alzare gli occhi “l’allarme poiana”.
Si parlano molte lingue in campagna, non solo quelle umane.
I piccoli corrono a nascondersi sotto la mamma e rimangono zitti e immobili. Anche le galline più timorose, una volta mamme, inseguono cani, gatti e umani che entrino nel territorio che hanno deciso di proteggere. A colpi di becco e di zampe, fino all’ultimo respiro e a costo della vita, difendono i loro figli mirando agli occhi: cativi cmé na ciozza.
Oggi le galline non covano più. Mezzo secolo fa invece, dopo aver deposto un buon numero di uova, cercavano di covarle. Si strappavano un bel mucchio di piumino dal sottopancia, per poterle coprire quando dovevano lasciarle per andare a nutrirsi, e presidiavano il nido. Quelle che non erano scelte per essere madri e assicurare i polli per l’anno successivo, venivano dissuase dal loro intento, tramite la privazione del bere e, se non la smettevano di provarci, seguiva anche l’immersione in una bacinella. La gallina veniva lasciata in piedi in quattro dita d’acqua: se provava ad accucciarsi si ritrovava in ammollo! Lo scopo della dissuasione dalla cova era di far loro deporre uova, ancora e poi ancora, prese com’erano dall’irrinunciabile desiderio di perpetuare la specie.
Non covano più. Forse perché ormai da tante generazioni nascono in incubatrice, forse perché questo panorama fa davvero un tale schifo da desiderare di finirla lì – pace e amen – e, le galline, hanno deciso di lasciare i capannoni dell’allevamento intensivo vuoti. Se deporre uova non dipende dalla loro volontà, possono almeno rifiutarsi di farne figli in questo mondo. Preferiscono sparire per sempre.
Le galline si uccidono tradizionalmente spezzando loro il collo, le oche invece hanno una colonna vertebrale così robusta che non si riesce a romperla con le mani, tant’è che si trasportano sollevandole proprio per il collo. Io le uccidevo decapitandole. Stessa sorte per i tacchini. Sono troppo pesanti perché una donna possa strangolarli, bisogna tenerli stretti sotto il braccio per impedire loro di sbattere le ali ferendoci e, intanto, tenerli per le zampe.
Occorre incantarli con la stessa voce con cui si chiamano quando si porta loro il cibo, li si appoggia col collo sul ciocco e si mena il fendente, senza esitare, e soprattutto senza chiudere gli occhi. Si uccidono mentre li si rassicura con la voce. Bisogna lasciare il cuore, la pena e l’empatia, appoggiati da qualche parte, lontani, perché non vedano e non sentano il colpo secco, schizzi di sangue dappertutto, la testa per terra, rapinata dai gatti, mentre negli occhi c’è ancora la luce accesa. Poi si appendono perché si dissanguino bene.
Sbattono le ali e tremano, senza la testa, prima di capire che è finita.
Si levano le penne accettando che si mischino ai capelli, che si attacchino ai vestiti, che ci rendano simili nell’aspetto a chi le ha perdute. I pidocchi pollini, che abitano sulla pelle, vengono sfrattati col fuoco, strinando il piumino. Il sangue ci finisce sotto le unghie, qualche brandello di pelle rimane tenacemente attaccata alle piume, l’odore delle viscere contorce lo stomaco. Il fiato caldo che esce dalla pancia squarciata sembra un’anima che se ne va.
I piccioni, invece, vanno presi direttamente dal nido, anticipandone il primo volo. Hanno becchi enormi rispetto alla testa, bordati di giallo. Li spalancano a chiunque si avvicini, fiduciosi dell’imbeccata. Scatenavano l’urlo del mio istinto materno, come i vitellini che piangevano quando venivano sgozzati e i maiali che, uncinati sotto l’ascella e trafitti con una lunga lama nel cuore, soffocavano nel loro sangue, gridando.
Quando si uccidevano i maiali nella mia vecchia casa, era molto doloroso ma semplice. Il norcino arrivava prestissimo, quando noi piccole eravamo ancora a letto. Ci svegliavano le grida d’aiuto del maiale, ma eravamo bambine, sapevamo che le nostre lacrime e le nostre richieste di pietà non servivano a nulla. Potevamo solo nascondere la testa sotto il cuscino e aspettare che tutto finisse. Per dimenticare le grida ci sarebbero poi state le fette di salame da mangiare col pane, per festeggiare l’arrivo dei nonni e degli zii lontani.
Ancora non lo sapevo ma sono morta un poco insieme a ciascuno di loro.
Si spennano a fatica i piccoli piccioni; quella linea gialla fa venire voglia di posarci dentro del cibo, ma sono squisiti nella bomba di riso, se si crede che il riso non basti per nutrirci. Per questo ho ucciso. In eguali condizioni di pensiero lo rifarei. Penso che la distanza fra assassini e non, sia un filo sottile, lo spessore di una convinzione. La tua carne mi serve; tu devi smettere di farmi paura; il mio Dio è migliore del tuo. Lotte tra animali: nel caso contadina-tacchino è lotta impari. Il pennuto è geneticamente modificato per arrivare a pesare venticinque chili invece di otto e, quindi, si ritrova con una struttura ossea incapace di consentirgli di sfuggire al macellaio correndo o volando.
Le modificazioni genetiche sono studiate per avere “materiale utile” all’uso umano. Il tacchino di venticinque chili ha la stessa ossatura di quello di otto, per cui le ossa si spaccano per il peso, e ha il cuore che si spappola ed esplode per la fatica di irrorare un simile mostruoso corpo. Non cacciamo più i tacchini; li storpiamo già prima dell’uovo, per nostro uso e consumo.
Anche quelli allevati in campagna sono deformati. La loro breve vita trascorre nel verde, mangiano insetti, granaglie, erba e è una piccola consolazione, ma non potrebbero comunque vivere a lungo. Ammesso che nessuno voglia mangiarli, hanno l’aspettativa di vita che ha un obeso che sia tre o quattro volte il proprio peso forma. Nell’allevamento a terra (dove per “terra” s’intende un pavimento, non le gabbie e non un prato) i tacchini come i polli, vengono stipati in grandi capannoni senza finestre e riscaldati con le lampade sin da quando hanno pochi giorni di vita. Sono stanzoni calcolati per contenerli “esattamente” quando saranno grandi.
“Esattamente” significa che non devono potersi muovere.
Non devono consumare calorie camminando, non devono provare a volare, litigare per il territorio o corteggiarsi. La serie dei “non devono” è infinita e la vivono tutta sulle loro feci, che non vengono mai rimosse dal pavimento, per risparmiare soldi di manodopera ed attrezzature e anche per non sottoporli a stress. Basta un forte spavento per ucciderli, per quanto il loro cuore è sproporzionato rispetto alla quantità di carne che deve irrorare pompando sangue. Giorno per giorno il pavimento si alza. Feci, penne e animali morti rimangono sotto i loro piedi, per tutta la loro breve vita. Il tanfo fa lacrimare gli occhi agli operatori che, dopo sei mesi di allevamento, cattureranno i tacchini per inviarli al macello e puliranno con la ruspa il capannone, preparandolo così per le prossime vittime in arrivo in batteria.
Le meravigliose creature dei boschi, che fanno la ruota, cambiano colore dei bargigli e gloglottano quando sono in amore, vivono e muoiono senza vedere il cielo, affondando nelle loro feci, nutriti di farina di pesce e sfarinati di carne di altri animali che, se potessero, non mangerebbero di sicuro.
I miei animali da cortile erano “felici” perché vivevano all’aperto. Con questo termine ipocrita io li ho allevati, e oggi si vendono uova, e animali allevati in semilibertà. “Semilibertà” è una parola che non ha ragione di esistere in un contesto come questo. Alla parola “felice” il vocabolario dice: “che si sente pienamente soddisfatto dei propri desideri, che ha lo spirito sereno, non turbato da dolori e preoccupazioni e gode di questo suo stato”. Ad oggi non esiste un modo per pilotare il sesso dei nascituri. Dalle uova nascono presumibilmente tanti maschi quante femmine. Lecito chiedersi dove sono i fratelli delle “galline felici”. Probabilmente sono proprio lì, davanti a loro, nelle mangiatoie. Vengono uccisi appena usciti dall’uovo per soffocamento con gas o per schiacciamento, buttandoli vivi in grandi sacchi di plastica, uno sull’altro come patate, e poi macinati, vivi o morti che siano, per ridurli a proteine commestibili.
Pochi minuti di vita dopo la schiusa, la cernita maschio femmina in base ai millimetri della crestina… ed è già tutto finito. Non stride nettamente con la parola “felice”? Uguale stridore sento pensando alla castrazione dei galletti.
La mia mamma “faceva” i capponi per cucinare il brodo grasso delle feste, per noi e per venderne qualcuno.
Noi bambini di campagna non eravamo veramente bambini: siamo stati, piuttosto, adulti di piccola taglia. Mio l’orgoglioso compito di tenere questi galletti per le zampe, mentre la mamma, seduta su una sedia bassa, li teneva fra le ginocchia, a testa in giù e strappava loro le piume tra le gambe, poi, con le forbicione da sarta, faceva un taglio da cui potessero passare due dita. La vedevo frugare un po’ e poi le dita se ne uscivano fumanti, tenendo due piccole “cose” rosa a forma di fagiolo. Le metteva in un piattino e, tutte insieme, erano la cena. Il galletto a cui venivano strappate le piume, gridava forte e cercava di fuggire; pochi minuti dopo il povero essere, tagliato a forbice, ansimava e ancora riusciva a gridare; alla fine il torturato, che veniva ricucito col filo di refe, rantolava soltanto e aveva gli occhi bianchi, senza pupilla. Alla fine di tutto, l’ultimo affronto: con le forbici la mamma tagliava la cresta e i bargigli, li riponeva nel piatto e copriva sottopancia e testa di cenere, per disinfettare. Quando lasciavo le zampe, il cappone si rimetteva in piedi, barcollava, scuoteva la testa, a volte moriva. Raramente.
Le brave rezdore avevano una percentuale d’insuccessi bassissima. Io non mi chiedevo se fosse giusto, se c’era un senso in quel rito, quanto soffrissero quelle creature; prendevo atto che si faceva così e mi preparavo a fare altrettanto, non sapevo di poter decidere; solo mi dava fastidio quell’odore di budella calde e non cenavo.
Dopo tutto questo, si grattugia il pane, casereccio naturalmente, si scotta con lo stracotto, si aggiungono le uova, il parmigiano reggiano, le spezie e la voglia di rivedersi. Si mescola con le mani, stringendo le manciate di ingredienti che devono passare fra le dita come gli anni, scottandole anche un po’. Si stende la pasta e le si dà la forma che si confà al nostro paese. Tortellini ombelico di venere, cappelletti, oppure anolini a forma di lunghi budelli ripieni, tagliati a tocchetti.
Qualunque sia la forma andrà cucinata in atmosfera non modificata, che è quell’arietta che stagiona i prosciutti e accarezza le scalere del parmigiano reggiano. E’ importante perché l’aria che rimarrà imprigionata tra i due fogli di pasta, ne insaporirà il ripieno durante la cottura nel brodo di cappone.
Io sono nata nel letto dell’Enza, per questo cucino tortellini, capelletti e anolini in uguale quantità. Lì eravamo cittadini di qua e di là, proprio vicini all’acqua, dove l’arietta era tutta mischiata e il ruggito della piena di notte ci faceva pensare che, prima o poi, una mattina ci saremmo svegliati dall’altra parte del fiume.